STORIE PER L'ANIMA

 

 Egli guarda me ed io guardo Lui 

Il Santo Curato d'Ars incontrava spesso, in Chiesa, un semplice contadino della sua Parrocchia.
Inginocchiato davanti al Tabernacolo, il brav'uomo rimaneva per ore immobile, senza muovere le labbra.
Un giorno, il Parroco gli chiese:
"Cosa fai qui così a lungo?".
"Semplicissimo. Egli guarda me ed io guardo Lui".

Puoi andare al tabernacolo così come sei. Con il tuo carico di paure, incertezze, distrazioni, confusione, speranze e tradimenti. Avrai una risposta straordinaria: «Io sono qui!».
«Che ne sarà di me, dal momento che tutto è così incerto?». «Io sono qui!».
«Non so cosa rispondere, come reagire, come decidermi nella situazione difficile che mi attende». «Io sono qui!».
«La strada è così lunga, io sono così piccolo e stanco e solo...». «Io sono qui!».

Bruno Ferrero, Il canto del grillo

 

Che Parole?

AUTORE: BRUNO FERRERO – LIBRO: IL CANTO DEL GRILLO – EDITORE: ELLEDICI

Un uomo, preoccupato perché‚ il suo matrimonio era in crisi, si recò a chiedere consiglio da un famoso maestro. Questi lo ascoltò e poi gli disse: Devi imparare ad ascoltare tua moglie. L’uomo prese a cuore questo consiglio e tornò dopo un mese per dire che aveva ascoltato ogni parola che la moglie dicesse. Il maestro gli disse sorridendo: Ora torna a casa e ascolta ogni parola che non dice.

Che parole bisogna dire per dare gioia?

Che parole bisogna dire per dare felicità?

Bisogna dire amicizia? Bisogna dire concordia?

Bisogna dire anche libertà? O bisogna prenderti la mano?

Che parole bisogna dire per dare Amore?

Che parole bisogna dire per dare tenerezza?

Bisogna dire ti amo? Bisogna dire sempre?

Bisogna dire anche bambini? O bisogna prenderti la mano?

Che parole bisogna dire? Che parole?

E se non dico niente, se taccio?

Se ti guardo semplicemente

E se ti sorrido

Allora la mia mano prenderà da sola la tua

E tu sentirai queste parole

Nel mio silenzio

(Blandine, 19 anni, morta di un cancro osseo).

l Grazie  

(Bruno Ferrero, A volte basta un raggio di sole)

Un'insegnante chiese agli scolari della sua prima elementare di disegnare qualcosa per cui sentissero di ringraziare il Signore. Pensò quanto poco di cui essere grati in realtà avessero questi bambini provenienti da quartieri poveri. Ma sapeva che quasi tutti avrebbero disegnato panettoni o tavole imbandite. 
L'insegnante fu colta di sorpresa dal disegno consegnato da Tino: una semplice mano disegnata in maniera infantile. 
Ma la mano di chi? 
La classe rimase affascinata dall'immagine astratta. "Secondo me è la mano di Dio che ci porta da mangiare" disse un bambino. "Un contadino" disse un altro, "perché alleva i polli e le patatine fritte". 
Mentre gli altri erano al lavoro, l'insegnante si chinò sul banco di Tino e domandò di chi fosse la mano. "E' la tua mano, maestra" mormorò il bambino. 
Si rammentò che tutte le sere prendeva per mano Tino, che era il più piccolo e lo accompagnava all'uscita. Lo faceva anche con altri bambini, ma per Tino voleva dire molto. 

Hai mai pensato al potere immenso delle tue mani? 

Dovremmo imparare ad osservare i "comandamenti della casalinga": 
"Se ci dormi sopra... rimettilo in ordine. 
Se lo indossi... appendilo. 
Se finisci di mangiare... mettilo nel lavandino. 
Se ci cammini sopra... sbattilo. 
Se lo apri... chiudilo. 
Se lo svuoti... riempilo. 
Se suona... rispondi. 
Se miagola... dagli da mangiare. 
Se piange... amalo".

 

La storia degli 11 cammelli

 

Un ricco cammelliere arabo lasciò in eredità ai suoi tre figli 11 cammelli: al maggiore lasciò la metà dei cammelli, al secondo ne lasciò un quarto e al terzo un sesto.

Nel dividersi l'eredità, sorsero seri problemi e i tre fratelli entrarono in una lite furibonda fino a rischiare di arrivare ai coltelli. Infatti, gli 11 cammelli non erano dividibili né a metà, né a un quarto, né a un sesto. E ciascuno pretendeva di avere un cammello in più per sé.

Sapendo del problema, un altro cammelliere, amico di famiglia, si presentò ai tre fratelli e donò loro un suo cammello, gratuitamente.

Avendo 12 cammelli, i tre fratelli poterono avere facilmente ciò che spettava a ciascuno di loro secondo giustizia: il primo ebbe i suoi 6 cammelli (la metà), il secondo ebbe 3 cammelli (un quarto), il terzo ebbe 2 cammelli (un sesto). A conti fatti, si accorsero poi che 6 + 3 +2 dava per risultato 11, 11 cammelli, e ne avanzava ancora uno. Così, risolti i loro problemi con giustizia, decisero di ridare il cammello a colui che l'aveva donato esprimendogli la loro riconoscenza.

E vissero felici e contenti i tre fratelli è colui che aveva donato un cammello.

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Cosa insegna questa storia?

In questa storia curiosa è riassunta la grande affermazione dell'enciclica Caritas in veritate: il dono è un bene economico.

Il cammelliere con il dono di un cammello ha sbloccato la giustizia inceppata dall’avidità e ha riavuto il suo cammello con, in più, la gratitudine dei fratelli. Mentre l’avidità conduce alla cecità e al blocco dei beni, la gratuità è il motore della giustizia economica e sociale.

Come ha scritto Benedetto XVI in Caritas in veritate: “La carità completa la giustizia nella logica del dono” (n.6).

“La logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall'esterno e, dall'altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità” (n.34).

 

“Il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti. Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco” (n.39).

Ciò che porti nel cuore (storia Zen)
Un vecchio saggio sedeva alle porte di una città.
Un giovane gli chiese: «Non sono mai venuto da queste parti. Come sono gli abitanti di questa città?»
Il saggio rispose con una domanda: «Come erano gli abitanti della città da cui provieni?»
«Egoisti e cattivi. Per questo sono stato felice di venire via.»
«Così sono gli abitanti di questa città», gli rispose il vecchio saggio.
Poco dopo, un altro giovane si avvicinò e gli pose la stessa domanda: «Sono appena arrivato. Come sono gli abitanti di questa città?»
L'uomo rispose di nuovo con la stessa domanda: «Com'erano gli abitanti della città da cui vieni?»
«Erano buoni, generosi, ospitali, onesti. Avevo tanti amici e ho fatto molta fatica a lasciarli!»
«Anche gli abitanti di questa città sono così», rispose il vecchio saggio.
Un mercante aveva udito le due conversazioni e quando il secondo giovane si allontanò si rivolse al vecchio in tono interrogativo: «Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda?»
«Figlio mio», rispose il saggio, «ciascuno porta nel cuore ciò che è. Chi non ha trovato niente di buono in passato, non troverà niente di buono neanche qui. Al contrario, colui che aveva amici leali nell'altra città, troverà anche qui amici leali e fedeli. Perché ogni essere umano è portato a vedere negli altri ciò che porta nel cuore

Il pane della fratellanza

Si racconta di una anziana contadina, di nome Giulia, che viveva in una fattoria con i suoi tre figli, Roberto, Michele e Francesco. Il marito le era morto durante la guerra. I tre figli, di cuore buono, erano però sempre pronti a litigare. Si volevano bene ma, bastava una parola in più ed erano litigi senza fine. A quel punto interveniva Mamma Giulia e ben presto i figli ritrovavano pace. La mamma divento vecchia, allora i figli si preoccuparono: "Mamma, cerca di star sempre bene e di non morire, perché quando litighiamo chi rimetterà la pace fra noi?". "Ma io dovrò pur morire prima o poi", rispose la mamma. "Allora, chiesero i figli inventa qualcosa perché quando tu non ci sarai più noi potremo rifare pace e volerci bene". Mamma Giulia pensò a lungo alla cosa e un giorno prese un foglio, vi scrisse come dovevano essere divisi i campi fra i tre figli e aggiunse alcune raccomandazioni perché andassero sempre d'accordo. La mamma un giorno si ammalò gravemente e dal suo letto chiamò i figli, consegnò loro il suo testamento, poi prese un pane, ne fece tre parti, ne diede una a ciascuno e raccomandò: "Mangiate e cercate di volervi bene". I figli, commossi, mangiarono il pane della mamma, bagnandolo con le loro lacrime. Di lì a pochi giorni Giulia morì. Roberto, Michele e Francesco si divisero serenamente i campi e ognuno si mise a lavorare il suo. Ma un giorno Roberto e Michele scoprirono che il confine fra i loro campi non era chiaro. Ben presto si misero a litigare. Stavano per fare a botte, quando arrivò Francesco. Egli si mise in mezzo a loro: "Non ricordate la mamma? Perché non facciamo come quel giorno che ci ha chiamati al suo capezzale?". Presero un pane, ne fecero tre parti, ne presero una per ciascuno e si misero a mangiare. Mentre mangiavano nella mente di Roberto e Michele si riaccese l'immagine della mamma; il suo volto e le sue parole scendevano nel loro cuore come una medicina. Scoppiarono in un pianto dirotto e fecero pace. La pace non durava molto, perché occasioni di litigio ne incontravano spesso. Però avevano imparato la soluzione: ogni volta che si creava un'occasione per litigare, i tre fratelli si sedevano attorno ad un tavolo, prendevano un pane, lo mangiavano insieme; ben presto scompariva la rabbia e tornava la pace.

Sognando la vita

(fonte non specificata)

In un grembo, vennero concepiti due gemelli. Passavano le settimane ed i bambini crescevano. Nella misura in cui cresceva la loro coscienza, aumentava la gioia: «Di', non è fantastico che siamo stati concepiti? Non è meraviglioso che viviamo?». 
I gemelli iniziarono a scoprire il loro mondo. Quando scoprirono il cordone ombelicale, che li legava alla madre dando loro nutrimento, cantarono di gioia: «Quanto grande è l'amore di nostra madre, che divide con noi la sua stessa vita!». A mano a mano che le settimane passavano, però, trasformandosi poi in mesi, notarono improvvisamente come erano cambiati. «Che cosa significa?», chiese uno. 
«Significa», rispose l'altro, «che il nostro soggiorno in questo mondo presto volgerà alla fine!». 
«Ma io non voglio andarmene», ribatté il primo, «vorrei restare qui per sempre!». 
«Non abbiamo scelta», replicò l'altro, «ma forse c'è una vita dopo la nascita!». 
«E come può essere», domandò il primo, dubbioso, «perderemo il nostro cordone di vita, e come faremo a vivere senza di esso? E per di più, altri prima di noi hanno lasciato questo grembo, e nessuno di loro è tornato a dire che c'è una vita dopo la nascita. No, la nascita è la fine!». 
Così, uno di loro cadde in un profondo affanno, e disse: «Se il concepimento termina con la nascita, che senso ha la vita nell'utero? 
È assurda... Magari non esiste nessuna madre dietro tutto ciò!». 
«Ma deve esistere», protestò l'altro, «altrimenti come avremmo fatto ad entrare qua dentro? E come faremmo a sopravvivere?». 
«Hai mai visto nostra madre?», domandò l'uno.«Magari vive soltanto nella nostra immaginazione. Ce la siamo inventata, perché così possiamo comprendere meglio la nostra esistenza!». 
E così, gli ultimi giorni nel grembo della madre, furono pieni di mille domande e di grande paura. Infine, venne il momento della nascita. Quando i gemelli ebbero lasciato il loro mondo, aprirono gli occhi. 
Gridarono... Ciò che videro superava i loro sogni più arditi! 
"Un giorno, finalmente, nasceremo!".

Sognando la vita

 

Gli Occhi

Una giovane mamma, in cucina, preparava la cena con la mente totalmente concentrata su ciò che stava facendo: preparare le patatine fritte. Stava lavorando sodo proprio per preparare un piatto che i bambini avrebbero apprezzato molto. Le patatine fritte era il piatto preferito dai bambini.
Il bambino più piccolo di quattro anni aveva avuto una intensa giornata alla scuola materna e raccontava alla mamma quello che aveva visto e fatto. La mamma gli rispondeva distrattamente con monosillabì e borbottii.
Qualche istante dopo si sentì tirare la gonna e udì: "Mamma".
La donna accennò di sì col capo e borbottò anche qualche parola. Sentì altri strattoni alla gonna e di nuovo: "Mamma".
Gli rispose ancora una volta brevemente e continuò imperterrita a sbucciare le patate.
Passarono cinque minuti. Il bambino si attaccò alla gonna della mamma e tirò con tutte le sue forze. La donna fu costretta a chinarsi verso il figlio.
Il bambino le prese il volto fra le manine paffute, lo portò davanti al proprio viso e disse: "Mamma, ascoltami con gli occhi!".

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Ascoltare qualcuno con gli occhi significa dirgli. "Tu sei importante per me".
Tutte le cose importanti passano attraverso gli occhi.

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Una giovane donna ha lasciato questo breve scritto a sua madre:
"Quando pensavi che non stessi guardando, hai appeso il mio primo dísegno al frigorifero e ho avuto voglia di continuare a stare a casa nostra per dipingere.
Quando pensavi che non stessi guardando, hai dato da mangiare ad un gatto randagio ed è allora che ho capito che è bene prendersi cura degli animali.
Quando pensavi che non stessi guardando, hai cucinato apposta per me una torta di compleanno e ho compreso che le piccole cose possono essere molto speciali.
Quando pensavi che non stessi guardando, hai recitato una preghiera e io ho cominciato a credere nell'esistenza di un Dio con cui si può sempre parlare.
Quando pensavi che non stessi guardando, mi hai dato il bacio della buonanotte e ho capito che mi volevi bene.
Quando pensavi che non stessi guardando, ho visto le lacrime scorrere dal tuoi occhi e ho imparato che, a volte, le cose fanno male ma che piangere fa bene.
Quando pensavi che non stessi guardando, hai sorriso e ho avuto voglia di essere gentile come te.
Quando pensavi che non stessi guardando, ti sei preoccupata per me e ho avuto voglia di diventare me stessa.
Quando pensavi che non stessi guardando, io guardavo e ho voluto dirti grazie per tutte quelle cose che hai fatto, quando pensavi che non stessi guardando".

Una vita solitaria

Figlio di una ragazza madre, era nato in un oscuro villaggio. Crebbe in un altro villaggio, dove lavorò come falegname fino a trent'anni. Poi, per tre anni, girò la sua terra predicando.
Non scrisse mai un libro.
Non ottenne mai una carica pubblica.
Non ebbe mai né una famglia né una casa.
Non frequentò l'università.
Non si allontanò più di trecento chilometri da dov'era nato.
Non fece nessuna di quelle cose che di solito si associano al successo.
Non aveva altre credenziali che se stesso.
Aveva solo trentatré anni quando l'opinione pubblica gli si rivoltò contro. I suoi amici fuggirono. Fu venduto ai suoi nemici e subì un processo che era una farsa. Fu inchiodato a una croce, in mezzo a due ladri.
Mentre stava morendo, i suoi carnefici si giocavano a dadi le sue vesti, che erano l'unica proprietà che avesse in terra. Quando morì venne deposto in un sepolcro messo a disposizione da un amico mosso a pietà.
Due giorni dopo, quel sepolcro era vuoto.
Sono trascorsi venti secoli e oggi Egli è la figura centrale nella storia dell'umanità.
Neppure gli eserciti che hanno marciato, le flotte che sono salpate, i parlamenti che si sono riuniti, i re che hanno regnato, i pensatori e gli scienziati messi tutti assieme, hanno cambiato la vita dell'uomo sulla terra quanto quest'unica vita solitaria.


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Al tempo della propaganda antireligiosa, in Russia, un commissario del popolo aveva presentato brillantemente le ragioni del successo definitivo della scienza. Si celebrava il primo viaggio spaziale. Era il momento di gloria del primo cosmonauta, Gagarin. Ritornato sulla terra, aveva affermato che aveva avuto un bel cercare in cielo: Dio proprio non l'aveva visto. Il commissario tirò la conclusione proclamando la sconfitta definitiva della religione. Il salone era gremito di gente. La riunione era ormai alla fine.
"Ci sono delle domande?".
Dal fondo della sala un vecchietto che aveva seguito il discorso con molta attenzione disse sommessamente: "Christòs ànesti", "Cristo è risorto". Il suo vicino ripeté, un po'più forte: "Christòs ànesti". Un altro si alzò e lo gridò; poi un altro e un altro ancora. Infine tutti si alzarono gridando: "Christòs ànesti", "Cristo è risorto".
Il commissario si ritirò confuso e sconfitto.
Al di là di tutte le dottrine e di tutte le discussioni, c'è un fatto. Per la sua descrizione basterà sempre un francobollo: "Christòs ànesti". Tutto il cristianesimo vi è condensato. Un fatto: non si può niente contro di esso.
I filosofi possono disinteressarsi del fatto. Ma non esistono altre parole capaci di dar slancio all'umanità: "Gesù è risorto".

Chi non Prega?

Un contadino, durante un giorno di mercato, si fermò a mangiare in un affollato ristorante dove pranzava di solito anche il fior fiore della città.

Il contadino trovò posto in un tavolo a cui sedevano già altri avventori e fece la sua ordinazione al cameriere. Quando l’ebbe fatta, congiunse le mani e recitò una preghiera.

I suoi vicini lo osservarono con curiosità piena di ironia, un giovane gli chiese: “A casa vostra fate sempre così? Pregate veramente tutti?.

Il contadino, che aveva incominciato tranquillamente a mangiare, rispose: “No, anche da noi c’è qualcuno che non prega”.

Il giovane ghignò: “Ah, si? Chi è che non prega?”.

 

“Beh”, proseguì  il contadino, per esempio le mie mucche, il mio asino e i miei maiali…”.

Alla Fine dei Tempi

 

Alla fine dei tempi, miliardi di persone furono portate su di una grande pianura davanti al trono di Dio. Molti indietreggiarono davanti a quel bagliore. Ma alcuni in prima fila parlarono in modo concitato. Non con timore reverenziale, ma con fare provocatorio.
"Può Dio giudicarci? Ma cosa ne sa lui della sofferenza?", sbottò una giovane donna. Si tirò su una manica per mostrare il numero tatuato di un campo di concentramento nazista. "Abbiamo subìto il terrore, le bastonature, la tortura e la morte!".
In un altro gruppo un giovane nero fece vedere il collo. "E che mi dici di questo?", domandò mostrando i segni di una fune. "Linciato. Per nessun altro crimine se non per quello di essere un nero".
In un altro schieramento c'era una studentessa in stato di gravidanza con gli occhi consumati. "Perché dovrei soffrire?", mormorò. "Non fu colpa mia".
Più in là nella pianura c'erano centinaia di questi gruppi. Ciascuno di essi aveva dei rimproveri da fare a Dio per il male e la sofferenza che Egli aveva permesso in questo mondo.
Come era fortunato Dio a vivere in un luogo dove tutto era dolcezza e splendore, dove non c'era pianto né dolore, fame o odio. Che ne sapeva Dio di tutto ciò che l'uomo aveva dovuto sopportare in questo mondo? Dio conduce una vita molto comoda, dicevano.
Ciascun gruppo mandò avanti il proprio rappresentante, scelto per aver sofferto in misura maggiore. Un ebreo, un nero, una vittima di Hiroshima, un artritico orribilmente deformato, un bimbo cerebroleso. Si radunarono al centro della pianura per consultarsi tra loro. Alla fine erano pronti a presentare il loro caso. Era una mossa intelligente.
Prima di poter essere in grado di giudicarli, Dio avrebbe dovuto sopportare tutto quello che essi avevano sopportato. Dio doveva essere condannato a vivere sulla terra.
"Fatelo nascere ebreo. Fate che la legittimità della sua nascita venga posta in dubbio. Dategli un lavoro tanto difficile che, quando lo intraprenderà, persino la sua famiglia pensi che debba essere impazzito. Fate che venga tradito dai suoi amici più intimi. Fate che debba affrontare accuse, che venga giudicato da una giuria fasulla e che venga condannato da un giudice codardo. Fate che sia torturato. Infine, fategli capire che cosa significa sentirsi terribilmente soli. Poi fatelo morire. Fatelo morire in un modo che non possa esserci dubbio sulla sua morte. Fate che ci siano dei testimoni a verifica di ciò".
Mentre ogni singolo rappresentante annunciava la sua parte di discorso, mormorii di approvazione si levavano dalla moltitudine delle persone riunite.
Quando l'ultimo ebbe finito ci fu un lungo silenzio. Nessuno osò dire una sola parola. Perché improvvisamente tutti si resero conto che Dio aveva già rispettato tutte le condizioni.

"E il Verbo si fece carne" (Giovanni 1,14).

Festa al castello
(Bruno Ferrero, 365 piccole storie per l'anima)

 

Il villaggio ai piedi del castello fu svegliato dalla voce dell’araldo del castellano che leggeva un proclama nella piazza.
«Il nostro signore beneamato invita tutti i suoi buoni e fedeli sudditi a partecipare alla festa del suo compleanno. Ognuno riceverà una piacevole sorpresa. Domanda a tutti però un piccolo favore: chi partecipa alla festa abbia la gentilezza di portare un po’ d’acqua per riempire la riserva del castello che è vuota...».
L’araldo ripeté più volte il proclama, poi fece dietrofront e scortato dalle guardie ritornò al castello.
Nel villaggio scoppiarono i commenti più diversi.
«Bah! È il solito tiranno! Ha abbastanza servitori per farsi riempire il serbatoio... Io porterò un bicchiere d’acqua, e sarà abbastanza!».
«Ma no! È sempre stato buono e generoso! Io ne porterò un barile!».
«Io un... ditale!».
«Io una botte!».
Il mattino della festa, si vide uno strano corteo salire al castello.
Alcuni spingevano con tutte le loro forze dei grossi barili o ansimavano portando grossi secchi colmi d’acqua.
Altri, sbeffeggiando i compagni di strada, portavano piccole caraffe o un bicchierino su un vassoio.
La processione entrò nel cortile del castello. Ognuno vuotava il proprio recipiente nella grande vasca, lo posava in un angolo e poi si avviava pieno di gioia verso la sala del banchetto.
Arrosti e vino, danze e canti si succedettero, finché verso sera il signore del castello ringraziò tutti con parole gentili e si ritirò nei suoi appartamenti.
«E la sorpresa promessa?», brontolarono alcuni con disappunto e delusione. Altri dimostravano una gioia soddisfatta: «Il nostro signore ci ha regalato la più magnifica delle feste!».
Ciascuno, prima di ripartire, passò a riprendersi il recipiente. Esplosero allora delle grida che si intensificarono rapidamente. Esclamazioni di gioia e di rabbia.
I recipienti erano stati riempiti fino all’orlo di monete d’oro!
«Ah! Se avessi portato più acqua...».

«Date agli altri e Dio darà a voi: riceverete da lui una misura buona, pigiata, scossa e traboccante. Dio infatti tratterà voi allo stesso modo con il quale voi avrete trattato gli altri» (Vangelo di Luca 6,38).